Fidarsi è meglio. Altrimenti non cresci.
Articolo pubblicato su inserto La lettura del Corriere della Sera, domenica 25 Gennaio 2015
Nell’infanzia si formano legami di attaccamento su cui fondiamo il senso di amabilità e valore personale. Comunicando con gli altri comprendiamo le menti. Nel mondo di finzione acquisiamo flessibilità e capacità di relazioni emotive. Poi esplodono gli ormoni, si spaiano le carte e diventa tutta un’altra storia.
“In principio tutto era vivo” inizia Notizie dall’interno di Paul Auster. Parla di infanzia, il periodo in cui si costruisce ciò che diventeremo da adulti. Dalla nascita fino all’inizio della pubertà il bambino ha un’attività psichica incessante, elettrica, pulsante. Il suo mondo interno si fonda su dei pilastri.
Il primo, la motivazione all’attaccamento. Quando è in difficoltà – fame, stanchezza, paura – il bambino cerca l’adulto di riferimento, convenzionalmente denominato: mamma. In una tipica sequenza fortunata chiede cibo se ha fame, conforto se è spaventato. La mamma accorre, lo nutre, lo calma e lo manda sereno a giocare. Interazioni ripetute di questo genere formano un’idea del tipo: “Ho bisogno di essere amato. Quando sono in difficoltà mamma accorre e fa le cose che mi fanno stare bene, quasi sempre. Vuol dire che mi ama e sono buono.” Un pensiero così, il bambino lo porta con sé varcati i cancelli dell’infanzia e lo usa per navigare nel mondo con fiducia. Lo chiamano ‘attaccamento sicuro’.
Secondo pilastro: nell’infanzia siamo attivi, curiosi, e bramiamo relazioni. Quello che il bambino non regge è l’assenza di reazione. Mettetelo in una stanza in cui lo psicologo – o l’essere chiamato ‘mamma’ di cui sopra – non fa una grinza quando il bambino dà segnali. Pochi secondi e si innervosisce di brutto. Mostrarsi attenti, invece, lo calma e lo riattiva. Significa che i bambini sono nati per comunicare continuamente e che il destino delle loro emozioni dipende da come gli altri sapranno riconoscerle e rispondere. Ignorarli li spiazza non poco.
Terzo pilastro: la costruzione della “teoria della mente“. Gli umani non nascono sapendo che nella mente degli altri ci sono idee, prospettive, affetti diversi dai loro. All’inizio il mondo è trasparente: la mente dell’altro è nella nostra, la nostra penetra quello dell’altro. Poi lentamente scopriamo che gli altri non sanno quello che sappiamo noi, e che magari si sbagliano.
Alcuni test misurano la capacità di capire la mente degli altri. Per dire: se a tre anni so che c’è una merendina nella scatola, do per scontato che lo sappiano tutti e che agiscano di conseguenza. A quattro anni invece capisco che io lo so, ma gli altri hanno un’informazione diversa, falsa, e che agiranno guidati da quello che sanno e non dalla realtà. Negli anni la teoria della mente si affina, i bambini imparano a influenzare le credenze degli altri e si specializzano nell’arte di dire bugie.
Favorire la costruzione di una buona teoria della mente nell’infanzia facilita la vita sociale adulta. C’è una zona dove questa capacità si allena: il ‘gioco di finzione sociale’. Nel mondo del “come se”, dove tu sei un Pokémon e io l’allenatore, io sono Elsa e tu sei Olaf (il pupazzo di Frozen col naso a carota), i bambini parlano di emozioni. Si immedesimano nei ruoli, se li scambiano e per farlo devono capire l’altro in modo sofisticato. Divertendosi un mondo.
In sintesi: nell’infanzia si formano legami di attaccamento su cui fondiamo il senso di amabilità e valore personale. Comunicando con gli altri comprendiamo le menti. Nel mondo di finzione acquisiamo flessibilità e capacità di relazioni emotive. Poi esplodono gli ormoni, si spaiano le carte e diventa tutta un’altra storia.
A proposito, definizione scientifica di infanzia, fase: 9 anni. Periodo in cui un bambino pretende una copia di Assassin’s Creed e una bambina afferma il suo diritto di andare a scuola truccata. In democrazia c’è diritto di voto ma non prima dei diciotto anni: potete tranquillamente dire no.